Alle Comunità di Ponte Nossa e Ponte Selva

 

Quando noi parliamo di Chiesa, abbiamo in mente una realtà piuttosto complessa, fatta di organismi, di gerarchie, di persone altolocate che rispondono ad appellativi piuttosto altisonanti. Troppo spesso ci dimentichiamo che la Chiesa è innanzitutto fatta di uomini e donne, giovani e anziani, ragazzi e bambini che appartengono a Dio, in quanto figli, perché battezzati. Ci dimentichiamo spesso che dentro questa semplice composizione, la Chiesa è una relazione vivente che si incarna nelle nostre relazioni, alcune facili, altre un po’ meno. Dentro queste relazioni è inevitabile fuggire al confronto, a domande, a situazioni che a volte ci imbarazzano, altre volte affrontiamo con disinteresse, altre prendiamo seriamente e altre ancora connotiamo più sotto forma di chiacchiericcio. Con gli apostoli Cristo ha sperimentato questo: ha chiesto chi fosse lui agli occhi della gente e così a turno gli apostoli hanno espresso la loro versione, frutto dell’ascolto di un vociare tra le file del mercato e incontri casuali di paese, frutto di un pettegolezzo di strada e di discorsi da bar. Questo è il primo modo di vivere la Chiesa: un modo piuttosto banale che colpisce anche le nostre comunità, soprattutto quando andiamo alla ricerca di notizie riguardanti gli altri con l’interesse di esserne i primi divulgatori. Ma non è la Chiesa, non è la comunità che piace a Cristo.

Un secondo modo di vivere le nostre relazioni è basato sul dialogo, sincero e schietto, che vede una grande ritirata di massa. È quanto avviene nella vita: finché si è bambini è facile essere diffusori di notizie, capaci di raccontare cosa sia accaduto ai compagni di scuola o cosa sia avvenuto durante l’allenamento sportivo, circa la vicenda alla quale si ha assistito per strada, piuttosto che alla litigata vista da un angolo della piazza. Quando si cresce e si passa all’età adolescenziale allora la cerchia si restringe, si scelgono le persone con cui relazionarsi, in particolare quegli amici con i quali si parla di cose banali, semplici, ai quali non si racconta tutto della propria vita, o almeno delle cose significative, ma quelle più normali e consone all’età, quelle sulle quali non c’è da riflettere, ma da ridere e da fare. La persona che inizia a farsi ponderante, guida sicura, attenta amica che sa arrivare dritta al cuore delle questioni non è più gradita: meglio tenerla a distanza per non incappare nelle questioni importanti della vita, della crescita, dell’esistenza. È quella persona che pone domande precise, alle quali non si può fuggire, per cui è meglio tenersene alla larga per paura che osi troppo. È quella che ha lo stesso ardire di Cristo, che ai suoi chiese in modo diretto e senza troppe deviazioni: «Chi sono io per voi?». Guarda caso non trova l’ardire di tutti, ma solo di Pietro che, neanche per propria capacità ma per ispirazione del Padre, confessa a Gesù: «Tu sei il Cristo!» Sembra che gli altri spariscano dalla scena, come spariscono le persone quando le si mette davanti a una realtà ben evidente che non vogliono riconoscere, anche se  in realtà sono lì, titubanti, che non vogliono metterci troppo la faccia per paura di essere rimproverate, o per timore di dover impegnarsi troppo nel mettersi in gioco con la loro sequela. Certamente seguire Cristo non è facile, soprattutto quando ci mette in discussione attraverso la domanda: Chi sono io per te? Seguire Cristo non è facile, soprattutto quando ci chiede di dare tutto di noi stessi e le nostre capacità a servizio della Chiesa, della comunità, di questa grande famiglia che siamo chiamati a servire ogni giorno con fatica, ma anche con soddisfazione e con gioia, proprio come facciamo nelle nostre famiglie.

C’è una terza fase o un terzo modo di vivere le nostre relazioni nella comunità: la pretesa di essere a conoscenza di tutto, di essere più bravi di altri, di aver l’arroganza di credere che la comunità senza la nostra presenza sarebbe nulla o, peggio ancora, la pretesa di sentirsi investiti di un ruolo che anziché manifestare un servizio disinteressato, porta a pensare di aver in mano una situazione o un’intera comunità da condurre a proprio piacimento, secondo le proprie idee e i propri schemi, per ricevere plausi e tributi. È quanto ha tentato di fare Pietro che, dopo aver professato la propria fede, si è messo a rimproverare Cristo, il Maestro, pensando di aver lui la soluzione, anzi di essere lui la soluzione ad ogni problema. Una sola espressione l’ha rimesso al suo posto: «Vai dietro a me!» Nessuno può vivere nella Chiesa, nella comunità, se non cammina insieme ai fratelli dietro a Cristo; nessuno è degno di servire una comunità se vuole camminare davanti a tutti e a Cristo stesso; nessuno può stare nella Chiesa se pensa solo a realizzare le proprie manie di grandezza. E anche questo tipo di Chiesa non piace a Cristo.

Abbiamo bisogno di essere Chiesa interpellata da Cristo, Chiesa che si lasci scuotere da Lui, che si lasci porre gli interrogativi più grandi dandone riposta insieme e non da soli o rifugiandoci nel nostro io. Dobbiamo essere comunità che ha a cuore le questioni di tutti e non solo i propri obiettivi. Dobbiamo essere comunità meno indifferenti alla voce di Cristo che ci chiama a servirlo e non a superarlo nei gruppi, negli ambienti, nelle proposte che ci vengono rivolte. E c’è un altro nemico della Chiesa che dobbiamo sconfiggere, diametralmente opposto al precedente: il menefreghismo che ci porta a pensare che ci sia sempre qualcun altro a fare, a sbrigare, a partecipare.

Sì, abbiamo bisogno di uscire dal nostro io, per vedere nella Chiesa il volto di Dio.

Questa è la Chiesa che ci affida il Signore, questa è la comunità che desidera da voi Cristo, questa è la comunità che vi auguro di continuare a costruire.

 

Chi è il prete? Oggi, potremmo dire, è un tuttofare. Deve dedicarsi alle necessità della chiesa, deve essere un buon amministratore dei beni mobili, immobili ed economici della parrocchia, deve essere un buon assistente sociale, deve essere capace di ascoltare la gente e fare quello che la gente dice, altrimenti è meglio che faccia altro. Ma altro cosa, se si sta già occupando di tutto e di tutti i casi? Perché nessuno afferma che il prete è colui che deve portare Cristo e portare a Cristo? Perché nessuno pensa che il prete sia colui che è chiamato a trasmettere il Vangelo della vita? Perché nessuno vede più il prete per quello che è? 

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Il profeta si sente chiamato dal Signore a donargli la vita, a mettere la propria vita nelle Sue mani, senza opporsi a Lui, senza rifiutare la Sua volontà, anche quando può sembrare dura, incomprensibile e, a volte, assurda. Il prete è colui che, come il profeta, confida nel Signore, si affida a Lui, perché è di Lui che vuole parlare, è Lui che vuole annunciare anche quando ha davanti un popolo assente, indifferente, tardo nel comprendere la bellezza di Cristo, della Sua Parola e dell’essere comunità. Per questo il prete non è più visto come colui che porta Cristo e porta a Cristo, perché di Cristo ormai poco ci importa, perché siamo più interessati a tutti quei servizi sociali che il prete non può negare, quali tenere aperto l’oratorio, anche quando siamo immersi in un tremendo vortice di maleducazione, dovuto anche all’avvento sempre più incisivo di mentalità e culture diverse dalle nostre radici che, se seguite, non portano certamente a quell’integrazione che dall’altra parte non si vuole attuare, pur di continuare a dominare la scena con l’arroganza e la pretesa di agire come meglio si crede Eppure in questo scenario il prete deve tacere – a detta di molti – così come deve tacere sull’educazione delle giovani generazioni ormai alla deriva e dovrebbe dare retta a tutti coloro che in gergo teatrale e cinematografico vengono definiti gli “scemi del villaggio”. Chi sono questi? Sono quelli che non sanno di cosa parlano; quelli che criticano per il gusto di criticare senza aver né visto, né sentito ciò di cui parlano; quelli che la sanno sempre lunga ma da fuori, perché da dentro non vogliono impegnarsi; quelli che è inutile far ragionare, perché sanno già come stanno le cose anche senza averle viste. Ecco, il prete è colui che deve dar retta anche a questi e fare ciò che dicono per non sentirsi denigrato, avvilito, giudicato.

No. Il prete, invece, è colui che non teme di dire la verità, non teme di ammonire, sferzare, e rimproverare comportamenti, pensieri, mentalità devianti e sbagliate, non teme di dire dei “No” che gli attirano critiche, ma che col tempo portano ragazzi, giovani e adulti a crescere bene, trovando la propria strada, la propria realizzazione. Il prete è colui che con il profeta dice: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Perché Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso».

Il prete è anche colui che, sostenuto dalla grazia di Cristo, si fa vicino alle persone, si fa prossimo agli ammalati e agli sfiduciati, diventa la carezza di Dio per coloro che si sentono soli e abbandonati dai familiari o dalla società stessa, si muove a compassione di chi non ha più una spalla alla quale appoggiarsi o sulla quale piangere. Il prete è colui che sa riconoscere le belle caratteristiche che stanno racchiuse nei più giovani come negli adulti e aiuta a darne realizzazione, perché ciascuno dia sempre il meglio di sé, visto che del peggio è già pieno il mondo. Quante caratteristiche nella nostra Chiesa, quanti talenti si vedono ogni giorno: questi dobbiamo tirar fuori, decisi a fare della comunità una grande orchestra dove ognuno non suona la sua musica, ma attraverso le proprie capacità contribuisce alla buona esecuzione di tutti, facendo attenzione a non farsi sopraffare da chi vuole soffocare le belle capacità per dirigere un’orchestra senza esserne il maestro, perché di Maestro ce n’è uno solo: Cristo.

Il prete è colui che vede le bellezze presenti nelle persone e con la grazia di Dio sa farle germogliare; è colui che dopo aver sferzato gli indecisi, gli apatici, i nullafacenti, sa indirizzarli verso la gioia vera di trovare il Signore presente nella propria vita che ha donato quei talenti, talvolta nascosti per pigrizia o per paura di essere giudicati. Il prete è colui che con il profeta dice: «Ecco, il Signore Dio mi assiste». Per questo supera ogni ostacolo, non si ferma davanti alla critica, non ha paura del giudizio, non teme chi gli rema contro e non si lascia prendere dallo sconforto di chi si allontana perché vede il prete troppo severo: il prete sa bene che Colui che fa crescere, cioè Dio, farà vedere a questi la luce di un nuovo giorno quando, usciti dalla terra delle proprie testardaggini, ricorderanno ciò hanno ricevuto da quell’uomo, da quel fratello che non si è arreso per il loro bene, affinché, germogliando, portino buoni frutti.

Ecco, questo è il prete: colui che al termine del proprio lavoro, non può che ricordarsi della parola detta dal Maestro: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"» (Lc 17,10).

 La parola GRAZIE è una delle prime che ci hanno insegnato. Ci permette di essere riconoscenti, perché significa che abbiamo ricevuto tanto. Ho provato a pensare ad ogni lettera della parola GRAZIE e ho trovato persone e motivi per ripeterla più volte questa sera.

  1. G. Giovani. Sono quella categoria che spesso si nasconde, vorrebbe fare ma non osa molto, ha bisogno di canali privilegiati, perché troppo impegno non stimola: l’oratorio diventa troppo stretto e si ha bisogno di altri spazi. Cari Giovani, grazie perché mi avete dato la possibilità di mettermi in gioco, di capire che la vita non è solo fanciullezza o anzianità, ma che ci siete anche voi ed è bello che ci siate. Grazie a quei giovani che hanno deciso di restare in oratorio e a quelli che, solo nella giovane età, hanno compreso quanto bella sia la vita oratoriana ritornando, magari da un’adolescenza diversa, lontana, o chiusa in se stessa. Grazie anche a chi se n’è andato,anche sbattendo la porta: mi ha dato la possibilità di comprendere quanto sia duro il compito di educatore, ma quanto valga la pena insistere. A voi giovani dico: tirate fuori la grinta, siate per i piccoli un punto di riferimento positivo, date il meglio di voi stessi, e troverete la vera realizzazione.
  2. R. Ragazzi. Sono quelli che crescono apprendendo, simili a spugne che assorbono la realtà che hanno attorno. Sono quelli che ormai hanno il cellulare in mano fin dal grembo materno, quelli che hanno capito che basta minacciare i genitori di non amarli per ottenere tutto. Grazie ragazzi, perché malgrado questa triste, ma vera descrizione della vostra realtà, siete quelli che sanno dare ancora soddisfazioni quando vi impegnate, quando partecipate alla vita della comunità e dell’oratorio, quando cercate di dare il meglio di voi stessi insegnando anche a noi adulti a non mollare di fronte alle sconfitte della vita. Perdonateci se abbiamo contribuito a ridurvi così e aiutateci a volere il vostro bene, anche se dobbiamo dirvi dei no che potrebbero costarci fatica, ma che vi permetteranno di crescere.
  3. Anziani. Sono la parte più tenera della comunità. Da voi ho imparato a contare il tempo e a non sprecarlo, a vedere la sofferenza come una compagna di viaggio che fortifica, rende capaci di guardare in faccia la vita, dona saggezza. Da voi ho ricevuto tanto affetto, malgrado tante volte io non abbia saputo ricambiarlo per il mio carattere burbero e timido e per le tante cose da fare: vi chiedo scusa se ho preferito adempiere ai miei impegni trascurando anche solo uno di voi. Da voi ho ricevuto la solidarietà e la generosità più grande, malgrado le vostre pensioni ridotte all’osso, perché mi avete sempre insegnato che nella vita come si riceve, si dona. Grazie di cuore.
  4. Generazione Z. Vengono chiamati così gli adolescenti, persone strane, difficili da definire e da capire. Se è quasi impossibile tirar fuori dalla vostra bocca un grazie per tutte le volte che vi ho rimproverato, sono io a dirvi grazie per avermi dato la possibilità di capire quanto mi siete cari, quanto sia affezionato a voi, quante cose belle potete fare e dare per la vostra comunità. È ben per questo che desidero questa sera abbracciarvi e stringervi al mio cuore, perché siete i più fragili, con una costituzione ancora da formarsi. Per questo ogni volta che vi si stimola a fare qualcosa di buono, come ogni volta che vi si rimprovera per non averlo fatto, ringraziate perché, così facendo, comprenderete tutto il bene che vi circonda ma che, per quella mania di onnipotenza e voglia di autonomia che vi caratterizza, non riuscite ancora a riconoscere.
  5. Instancabili. Sono i volontari che animano le nostre comunità: all’inizio, quando si chiede loro di entrare a far parte di un gruppo, di una realtà, di un ambito parrocchiale, sono titubanti, poi danno tutto loro stessi fino a non sentir più la stanchezza, ma solo la bellezza di mettersi al servizio. Grazie perché, anche quando in paese i nullafacenti vi criticano, sapete andare avanti. Grazie perché, anche quando i più giovani, di cui sopra, portano all’esasperazione, continuate a credere all’opera più grande di voi, che si chiama Chiesa. Grazie perché, malgrado i miei ritardi e le mie richieste assurde, avete sempre fatto di tutto per accontentarmi ed essere puntuali nell’adempimento di ciò che vi chiedevo. So che nella mente me ne avete tirate di ogni colore, ma il vostro cuore ha prevalso. A voi chiedo di continuare lo stile del servizio, che non è lo stile di chi vuole imporsi con atteggiamenti invadenti senza aver ricevuto un mandato per farlo, non è lo stile di chi pensa che il volontario, proprio perché tale, possa fare quello che vuole negli ambienti della comunità, offendendo con la propria insistente presenza anche il servizio degli altri.
  6. Educatori. A voi genitori, catechisti, allenatori, baristi, figure diverse a contatto con i ragazzi, va il mio grazie: a voi che credete ancora che l’educazione è cosa del cuore (come diceva don Bosco) e non un qualcosa da fare tra le tante incombenze da adempiere in una giornata. Grazie a voi che mi avete manifestato attenzione, collaborazione educativa e non mi avete negato anche qualche critica costruttiva dall’interno della nostra realtà, a differenza di chi si è permesso di giudicare, senza avere messo dentro un’unghia del piede. Grazie anche a questi ultimi, perché mi hanno dato la possibilità di credere in quanto ho proposto confermando la parola del Signore che ha detto ai suoi discepoli: «Guai quando tutti diranno bene di voi». Non demordete, cari educatori: riprendiamoci questo mondo allo sbaraglio, per far capire quanto è bella la vita se vissuta e spesa alla grande.

 

GRAZIE. Una semplice parola che costa niente, ma che questa sera sento come una spina nel fianco, perché mi dice che è giunto il momento di partire. La pronuncio con più grinta qui, in questo oratorio a me tanto, tanto caro, che ho trovato in un modo e che lascio in tutt’altro con grande soddisfazione per questi anni di costruzione non solo materiale. La rivolgo alle diverse realtà delle nostre comunità, alle amministrazioni comunali e alle tante associazioni che le compongono.

Grazie davvero a tutti, senza escludere o tralasciare nessuno.

 

A tutti e per tutto, dico grazie.

A tutti e per tutto, chiedo perdono.

 

Don Alessandro Angioletti

Ponte Nossa e Ponte Selva

15 settembre 2024

 

XXIII del tempo ordinario B

8 settembre 2024

 

Parlare di poveri è astratto. Se giriamo per le grandi città, come Roma, Milano, Napoli e via dicendo, di poveri se ne incontrano a centinaia in un giorno: quelli che cercano l’elemosina, quelli che insistono per una monetina, quelli che chiedono denaro per comprarsi un pasto, poi magari li troviamo altrove a fare altro. Forse a forza di sentir parlare di poveri – e il Santo Padre lo fa in tutte le occasioni – rischiamo di non sapere più chi siano i poveri, che volto abbiano i poveri, come si comportino i poveri. Inquieta un poco la parola che l’apostolo Giacomo ci rivolge: Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Non sono sicuro che basti questo interrogativo per identificare la questione. Sarà che quelli degli anelli d’oro al dito sanno di esaltati, arroganti, presuntuosi e attirano solo quelli ammalati di onnipotenza, quelli che cercano un posto di rilievo e quindi stendono lingua e tappeti a gente del genere. Ci sono quelli col vestito logoro, dice l’apostolo, che vengono tenuti a distanza, puzzano perché non si lavano e vivono per strada; si confondono con la moda di oggi, quella dal vestito stracciato, fin troppo succinto, banale e volgare che cerca solo di attirare l’attenzione dei maliziosi e infastidisce chi vorrebbe una vita vestita normalmente, con dignità. Partendo dal fatto che oggi chi vive, chi si veste, chi parla normalmente è più discriminato di chi vive di gran lunga sopra le righe, la domanda che sorge spontanea è una sola: chi è più povero, l’uomo dal vestito logoro di cui parlano l’apostolo e il Santo Padre o quello che esibisce se stesso, mette in mostra il proprio corpo cercando consensi, diventa banale e volgare perché è l’unico linguaggio che oggi gli o le permette di essere al centro del mondo? Chi è più povero: quello col vestito logoro o chi commette tragedie senza un motivo? Ditemi chi è più povero?

Abbiamo assistito alla tragedia della giovane bergamasca uccisa da uno sconosciuto senza motivo, che dopo aver importunato alcuni adolescenti ha deciso di colpire una giovane donna chiedendole addirittura scusa prima di ferirla a morte: e tutto senza un perché. Parlandone nei giorni scorsi con alcuni dei nostri ragazzi di questa vicenda ormai avvenuta più di un mese fa, mi guardavano straniati a tal punto che ho chiesto loro se non fossero a conoscenza dell’accaduto; e con la solita faccia ebete mi rispondono di essere estranei alla notizia. Anche questa è una povertà profonda: sempre ricurvi sul cellulare più bello e più costoso, non conoscono nemmeno ciò che succede attorno a loro, come se fossero fuori da un mondo che, in realtà, li assorbe più di una spugna. Abbiamo assistito all’orribile annuncio della tragedia familiare nella Brianza di un ragazzo che senza un motivo appurato ha sterminato la sua famiglia. Dove stanno le povertà, nel vestito logoro o nelle persone logorate da questo mondo impazzito?

Scorrendo i giornali in rete, ecco un’altra storia di povertà, ma non di quella di cui parla Giacomo, né continuamente e ripetutamente il Papa. È la storia di una madre inglese, definita “la mamma più tatuata della Gran Bretagna”, soffre nel non poter fare tranquillamente shopping con i suoi figli che devono comprare il necessario per la scuola. Il motivo? Le persone la guardano male e la criticano, proprio per i suoi tatuaggi: “Sono devastata perché non posso portare i miei figli a fare acquisti. Evito di andare nei negozi la maggior parte del tempo ed è il mio compagno a fare quasi tutte le spese. Ma stavolta volevo esserci come mamma”, ha detto la 47enne. E ancora: “Mi piacerebbe uscire con i miei figli e aiutarli a scegliere le cose che useranno e indosseranno a scuola, ma gli estranei non mi lasciano in pace. Quando siamo nella sezione bambini, gli altri genitori mi fissano. I loro figli mi indicano, alcuni ridono e altri iniziano a piangere spaventati”. Ha spiegato di essere “dipendente dai tatuaggi, ne faccio tre a settimana e non mi fermerò mai, se arrivo a 70 anni li avrò ancora. Ogni pezzetto di pelle sarà coperto. Il mio viso sta già diventando blu, sembro un Puffo”. Sulla difficoltà di aiutare i figli a comprare le cose per la scuola ha aggiunto: “Devo coprirmi il viso con uno spesso strato di fondotinta. È difficile perché i miei figli hanno bisogno di nuove uniformi e articoli di cancelleria come tutti gli altri bambini. A loro non importa che io sia tatuata, quindi non capisco perché sia un problema così grande per gli altri, specialmente per i genitori”. Le viene chiesto se si pentisse di essersi tatuata così tanto. “Amo il mio aspetto. Non dovrei dover nascondere il mio corpo agli altri. I miei tatuaggi dovrebbero essere accettati e compresi”, ha concluso.

Io mi chiedo: in che direzione stiamo andando? Sono sbagliati quelli che la guardano con imbarazzo e un po’ spaventati (che a guardarla ha impressionato pure me) o non piuttosto è fuori fase questa storia di dipendenza? È così brutta la normalità da essere oggi additata e giudicata male o forse stiamo cadendo in una povertà di senso tanto da andare sempre più a fondo?

Scrive il profeta Isaia e ne fa eco Gesù nel Vangelo: Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua. Se il profeta, con queste espressioni, parla di un mondo che si rovescerà, passando dal male al bene, invochiamo il Signore, perché il mondo di oggi, andato ormai di male in peggio, possa svegliarsi, i cristiani possano ancora rialzare la testa e spalancare il cuore, non per assecondare tutte le pazzie di questo tempo, ma per conoscere tempi nuovi, tempi belli, tempi nei quali la povertà di cui si parla e straparla non sia solo quella del vestito logoro, ma ci si faccia prossimi a chi ha la mente e il cuore ormai lacerati da questo mondo e da chi su un palco ne domina la scena facendo passare il normale per una cosa scandalosa, anziché promuovere il vero bene che vinca la bruttezza di questi tempi.

Sant’Alessandro, martire

26 agosto 2024

 

In quel tempo si avvicinava per Mattatia l’ora della morte ed egli disse ai figli: «Ora dominano superbia e ingiustizia, è il tempo della distruzione e dell’ira rabbiosa». In quale tempo? Solo al tempo di Mattatia o non piuttosto anche nel nostro tempo? È il tempo della guerra, dell’ira rabbiosa di popoli che non trovano la pace, di potenti sanguinari che non hanno a cuore il bene del popolo, la vita dei civili, ma solo la smania del proprio potere che si tramuta in odio e quindi in vendetta. È il momento della distruzione voluta da chi non cerca la pace, ma gode solo dello sterminio. È il nostro tempo che ricalca i tempi antichi, ripercorre i tempi passati, speriamo non inauguri tempi futuri catastrofici.

Oggi la nostra Chiesa di Bergamo si allieta per il trionfo del santo martire Alessandro, un soldato, come molti soldati impegnato nel servizio militare dell’impero. Alessandro, un soldato convertito al cristianesimo, che ha servito l’imperatore nella difesa del potere romano. Un soldato, Alessandro, che, come molti soldati di oggi, pur credendo nel Dio di Gesù Cristo, nel Dio della vita, nel Dio dell’amore, ha impugnato le armi della morte. Anche nella Santa Terra dove Dio ha appoggiato i suoi piedi fin dalla creazione, dove Dio si è fatto uomo in Gesù nel grembo di Maria, dove Dio ha piantato la sua tenda in mezzo all’umanità, proprio in questa Terra Santa si odono solo sirene di morte e si vedono soldati che, pur credenti, impugnano le armi dello sterminio. Lo ha ribadito il bergamasco patriarca, il cardinale Pierbattista Piazzabala: «L’impatto che questa guerra ha avuto su entrambe le popolazioni, quella ebrea e quella palestinese, è unico, senza precedenti. Questo rifiutare l’uno l’esistenza dell’altro è diventato materia quotidiana, si è diffuso nei media, nei social media, è diventato veramente drammatico. La nostra diocesi copre quattro nazioni diverse: Giordania, Israele, Palestina e Cipro. Israele arabo ma anche Israele ebraico. Avevamo persone a Gaza sotto le bombe israeliane, ma avevamo anche cattolici, cristiani, che facevano servizio militare. Quindi su fronti completamente diversi. Il cristiano israeliano è israeliano e il cristiano palestinese è palestinese, in tutto e per tutto. Curare l’unità non è stato semplice: è chiaro che tu appartieni al tuo popolo, però c’è anche un’appartenenza a Cristo che ti deve aiutare anche ad avere uno sguardo differente. E non è sempre così immediato».

Se oggi ci allettiamo per il trionfo del santo martire Alessandro, di quale trionfo possiamo parlare allora se la guerra è una disfatta per l’intera umanità? Il trionfo di Alessandro è la vittoria del bene sul male, dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta. Il trionfo del martire Alessandro è inesistente agli occhi del mondo di oggi, perché colui che, per Gesù Cristo e per il Vangelo, ha perso la testa, recisa dalla spada dell’imperatore, non ha trionfato, ma è stato sconfitto. Per noi cristiani non è così e Tu, o Padre, ci concedi di rivivere, con esultanza sempre antica e sempre nuova, il buon combattimento del glorioso martire Alessandro (dal prefazio), perché egli ci insegni non a combattere con le armi della distruzione, ma con il potere dell’amore, l’amore per Dio che si riversa nei fratelli.

In questo tempo nel quale dominano superbia e ingiustizia, odio e violenza, rancore e guerra, la festa del nostro patrono ci scuote e ci chiede di combattere a nostra volta con le sue stesse armi, come l’apostolo Paolo ci ammonisce: state saldi in un solo spirito e combattete unanimi per la fede del Vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari.

Viviamo in un tempo nel quale ci guardiamo attorno con la paura di essere colpiti, sterminati, uccisi dalle parole altrui, dalle calunnie e maldicenze; viviamo guardandoci attorno per scorgere uno sguardo, una parola, un gesto sospetti che potrebbero danneggiarci; viviamo con la paura di avere attorno a noi solo nemici pronti ad annientarci o in attesa della nostra fine. Perché vivere in questo mondo in questo modo? La paura nasce dal sospetto e il sospetto dall’odio che respiriamo: anche nelle nostre comunità, come nelle nostre singole esistenze, si annida questo odio che fa nascere sospetti e incute la paura di essere giudicati, derisi, spodestati, additati, calunniati.

Dovremmo invece far trionfare quella pace e quella carità vicendevole che ci porta a guardarci in faccia con serenità, attenti a correggerci a vicenda, anziché calunniarci alle spalle, combattendo non gli uni contro gli altri per un posto di privilegio nella società, ma gli uni a fianco degli altri per difenderci dagli assalti del male che genera odio, rancore e vendetta. Riguardo a Cristo – continua l’apostolo – a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.

Sì! Sosteniamo la lotta contro il male, combattiamo la buona battaglia contro l’odio, schieriamoci contro ogni desiderio di rivendicazione nel nostro piccolo, nelle nostre comunità, mentre eleviamo a Dio l’invocazione per la pace in Terra Santa e per tutte le terre martoriate dalla guerra. Impegniamoci nel nostro piccolo a far crescere germogli d’amore, perché le nostre comunità siano giardini fioriti, irrigati da secoli dal sangue del nostro martire.

E tu, Beato Alessandro, continua a porti davanti a noi con il vessillo della vittoria, quella sul male e sulla morte, e dona alla terra bergamasca, come ad ogni nostra comunità, di essere quel giardino fiorito di pace. Te lo chiedo in modo particolare per queste comunità che ho servito con amore in questi anni, te lo chiedo in modo speciale per la comunità comendunese alla quale va ora il mio cuore e che si onora di averti, come me, quale glorioso patrono. Amen.

XXII del tempo ordinario B

1 settembre 2024

 

Labbra e cuore: quanta distanza intercorre tra le une e l’altro? Fisicamente pochi centimetri, ma interiormente potrebbe esserci un abisso. Spesso le nostre labbra proferiscono elogi e magnificenze, onori a non finire, complimenti che superano ogni aspettativa, ma il cuore? Il cuore e – aggiungiamo – la mente vano in tutt’altra direzione. Facciamo così con le persone e di conseguenza anche con il Signore. Capaci di fare buon viso e cattivo gioco, pronti ad elogiare in pubblico e ruffianare in privato, buoni a proferire panegirici e subito dopo muovere critiche, abili nel sorridere in faccia e molto di più a colpire alle spalle.

Se quelli si indignavano per non aver rispettato le tradizioni degli antichi, noi potremmo dire che la tradizione di onorare con le labbra e essere diametralmente all’opposto col cuore la stiamo rispettando, anzi possiamo dire che la stiamo tramandando, come tradizione vuole.

Pronti a muovere critiche per il tragitto variato di una processione, ci dimentichiamo di dare un senso a quella pratica religiosa, perché se il senso è quello di portare sulle spalle attraverso le nostre strade e tra le nostre case la figura di un santo o della Madonna, allora poco importa se il tragitto sia quello o un altro: conta di più il significato che vogliamo attribuire. Pronti a lodare il Signore con la lode attraverso la recita quotidiana dei salmi, ma chiuso il libro la nostra lingua parla a sproposito e con arroganza, come se le parole dei profeti che portano a chiedere perdono o a rendere grazie a Dio non ci avessero nemmeno sfiorati. Pronti a innalzare il nostro canto al Signore dalle prime file della chiesa, appena usciti, se non anche nello stesso momento, vomitiamo cattiverie che anche il Padre eterno preferisce tapparsi le orecchie. Però almeno potremo dire di aver rispettato la tradizione.

E se capissimo che tradizione significa tramandare innanzitutto quella fede che dà senso alle cose di sempre, ma anche a quelle nuove? Se comprendessimo che ciò che facciamo è a lode e gloria di Dio e non di noi stessi? E se comprendessimo che dal tramandare al tradire è un attimo, o per chi mastica il latino per tradizione, basta un accento per cambiare il significato, passando appunto dal tramandare al tradire?

Che senso ha tutto ciò che facciamo o che ci vantiamo di aver fatto? Se avessimo a cuore davvero il futuro della Chiesa, della cristianità, della comunità nella quale si incarna il Cristo, avremmo a cuore le tradizioni e non il tradire chi viene dopo di noi. Forse pensiamo che l’andare avanti con le cose di sempre sia un bene? Può esserlo certamente, ma allora perché al giorno d’oggi tutto sta scomparendo, ai ragazzi, come ai loro genitori, non interessa più quanto il Signore ci dice o le cose di una volta? Non è che sta venendo meno il senso di ciò che facciamo e anche il nuovo, il moderno – che spesso viene invocato come l’avanguardia – non abbiano nulla da dire? Allora non è questione di antico o nuovo, ma di senso, quello che ci manca ogni volta che compiamo una pratica religiosa o preghiamo pensando di essere graditi a Dio o lo esaltiamo con le nostre voci credendo di far piacere a chi, non si sa, se più al Signore o a noi stessi; tuttavia ogni volta che il nostro cuore e le nostre labbra non comunicano tra loro, o meglio, ogni volta che nel nostro cuore non abita Dio che dà senso a ciò che pensiamo e diciamo, allora potremo rispettare tutte le tradizioni o essere i più innovativi, ma non faremo nulla di buono, perché dove non c’è Dio, c’è solo un becero io, e dove c’è un striminzito io che pensa solo a se stesso con la scusa della tradizione non c’è Dio e quindi non c’è la Chiesa, non c’è il mondo, nessuno c’è da amare, ma solo qualcuno da criticare per sentirci migliori.

Se questa è la tradizione la stiamo rispettando benissimo; se è il domani, speriamo finisca oggi; se è il vangelo sicuramente non è quello di Gesù Cristo per il quale diciamo di fare tanto, ma in realtà stiamo facendo per noi stessi e per una gloria che oggi può sembrare e che domani finisce ai vermi.

 

XXI del tempo ordinario B

25 agosto 2024

 

Ci armiamo di buoni propositi con l’idea di metterci in ascolto della parola del Signore; poi quando questa diventa rigida, esigente, impegnativa da mettere in pratica, allora preferiamo modellarla a nostro piacimento oppure toglierla di mezzo. Lo dimostra il popolo d’Israele che, di fronte alla proposta di Giosuè, se servire il Signore o le divinità, sceglie con grande devozione di servire il Signore che l’ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto e l’ha condotto alla terra promessa. Parole sublimi: «Lungi da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi!». Un’espressione così forte, dopo anni e chilometri di mormorazioni contro Dio e contro il suo servo Mosè, suona molto strana. Che si siano convertiti gli Israeliti? Che abbiano compreso che lontani da Dio non c’è salvezza? Sta di fatto che i buoni propositi dell’antico popolo non durarono molto, quanto meno una parvenza di buona volontà è stata espressa. Differente è la reazione immediata dei discepoli di Cristo che, di fronte al discorso sul pane vivo e vero disceso dal cielo e sulla volontà di Cristo di donare all’uomo il suo Corpo e il suo Sangue come nutrimento di salvezza, molti decidono su due piedi di andarsene; più che il pane, con il quale avevano riempito gratuitamente lo stomaco, non riescono a digerire le parole di Cristo, parole certamente impegnative, profonde, sì, ma talora incomprensibili, tanto da dire: «Questa parola è dura, chi può ascoltarla?».

Noi stessi, di fronte al pane secco di qualche giorno, duro come un sasso, ci poniamo la stessa questione: «Questo pane è troppo duro, chi può mangiarlo?». Non è la consistenza del pane a renderlo buono o meno buono, ma la sua essenza: il pane, secco o morbido, stantio o del giorno, è pur sempre pane e pur sempre nutriente. È una questione di palato, come è una questione di orecchie e più ancora di cuore nell’ascoltare parole buone e giuste, anche se severe. È infatti evidente come sia più semplice ascoltare parole che ci riempiono di elogi, che ci dicano sempre che ogni cosa che facciamo è perfetta, che ogni scelta presa sia la migliore o parole che ci spingano a fare quello che abbiamo in mente, confermando la nostra posizione. Quando, al contrario, ci troviamo davanti l’amico o la persona che inizia a contestare le nostre decisioni, a mostrarci che quanto abbiamo in testa non è cosa buona o che la scelta che stiamo per compiere può rivelarsi sbagliata, allora agiamo come i discepoli nei confronti del Signore: preferiamo andarcene o allontanare dalla nostra vita l’amico o la persona che ci ha messo in guardia dal prendere decisioni o fare scelte che si stanno rivelando o già si sono rivelate banali o sbagliate. È più facile masticare pane appena sfornato che quello secco, eppure quello secco è più digeribile. È più facile accettare chi esprime consensi senza mostrare interesse alla nostra persona, piuttosto che seguire i consigli di chi veramente tiene a noi e ci dice chiaramente le cose come stanno.

Come non ricordare il grande Precursore, Giovanni Battista, che proprio per la sua parola testimoniò in anticipo il Signore, Via, Verità e Vita. Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. (Mc 6,17-20)

Per la Verità il Battista perse la testa. Per la Verità siamo disposti a perdere la faccia? Siamo disposti a perdere anche l’amicizia a cui teniamo di più pur di indicare la via giusta da seguire? È solo perdendo la testa o la faccia per la verità che dimostreremo l’amore più vero, l’affetto più sincero, l’amicizia più autentica. È solo lasciando parlare in noi il Signore e il suo Vangelo, che getteremo semi di Verità nel cuore di chi ci ascolta, in ogni ambito di vita. E chissà che magari questa persona o queste altre possa o possano ravvedersi, possa o possano comprendere quella verità che abbiamo annunciato, quella per la quale abbiamo scelto di perdere la faccia. E alla domanda: «Vuoi andartene? Volete andarvene?», chissà quale risposta potrà seguirne? Forse c’è chi se andrà o se n’è già andato, magari per sempre; forse ritornerà? Lasciamo agire il Signore nel cuore altrui, perché possa aiutare a riflettere e far trovare così una risposta giusta all’esistenza.

A noi il compito più arduo: se, infatti, per ciascuno è più facile dare buoni consigli col rischio di essere allontanato, questo non esula dal fatto che prima di dare buone parole di vita, bisogna in prima persona mettersi in ascolto della Parola vera, della Verità fatta carne, Cristo, il quale ad ognuno si rivolge come ai Dodici apostoli: «Volete andarvene anche voi?». Pietro rispose: «Signore, da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna». E noi? Cosa rispondiamo? Come ci poniamo di fronte a questa tremenda domanda?