Alle Comunità di Ponte Nossa e Ponte Selva

 

Quando noi parliamo di Chiesa, abbiamo in mente una realtà piuttosto complessa, fatta di organismi, di gerarchie, di persone altolocate che rispondono ad appellativi piuttosto altisonanti. Troppo spesso ci dimentichiamo che la Chiesa è innanzitutto fatta di uomini e donne, giovani e anziani, ragazzi e bambini che appartengono a Dio, in quanto figli, perché battezzati. Ci dimentichiamo spesso che dentro questa semplice composizione, la Chiesa è una relazione vivente che si incarna nelle nostre relazioni, alcune facili, altre un po’ meno. Dentro queste relazioni è inevitabile fuggire al confronto, a domande, a situazioni che a volte ci imbarazzano, altre volte affrontiamo con disinteresse, altre prendiamo seriamente e altre ancora connotiamo più sotto forma di chiacchiericcio. Con gli apostoli Cristo ha sperimentato questo: ha chiesto chi fosse lui agli occhi della gente e così a turno gli apostoli hanno espresso la loro versione, frutto dell’ascolto di un vociare tra le file del mercato e incontri casuali di paese, frutto di un pettegolezzo di strada e di discorsi da bar. Questo è il primo modo di vivere la Chiesa: un modo piuttosto banale che colpisce anche le nostre comunità, soprattutto quando andiamo alla ricerca di notizie riguardanti gli altri con l’interesse di esserne i primi divulgatori. Ma non è la Chiesa, non è la comunità che piace a Cristo.

Un secondo modo di vivere le nostre relazioni è basato sul dialogo, sincero e schietto, che vede una grande ritirata di massa. È quanto avviene nella vita: finché si è bambini è facile essere diffusori di notizie, capaci di raccontare cosa sia accaduto ai compagni di scuola o cosa sia avvenuto durante l’allenamento sportivo, circa la vicenda alla quale si ha assistito per strada, piuttosto che alla litigata vista da un angolo della piazza. Quando si cresce e si passa all’età adolescenziale allora la cerchia si restringe, si scelgono le persone con cui relazionarsi, in particolare quegli amici con i quali si parla di cose banali, semplici, ai quali non si racconta tutto della propria vita, o almeno delle cose significative, ma quelle più normali e consone all’età, quelle sulle quali non c’è da riflettere, ma da ridere e da fare. La persona che inizia a farsi ponderante, guida sicura, attenta amica che sa arrivare dritta al cuore delle questioni non è più gradita: meglio tenerla a distanza per non incappare nelle questioni importanti della vita, della crescita, dell’esistenza. È quella persona che pone domande precise, alle quali non si può fuggire, per cui è meglio tenersene alla larga per paura che osi troppo. È quella che ha lo stesso ardire di Cristo, che ai suoi chiese in modo diretto e senza troppe deviazioni: «Chi sono io per voi?». Guarda caso non trova l’ardire di tutti, ma solo di Pietro che, neanche per propria capacità ma per ispirazione del Padre, confessa a Gesù: «Tu sei il Cristo!» Sembra che gli altri spariscano dalla scena, come spariscono le persone quando le si mette davanti a una realtà ben evidente che non vogliono riconoscere, anche se  in realtà sono lì, titubanti, che non vogliono metterci troppo la faccia per paura di essere rimproverate, o per timore di dover impegnarsi troppo nel mettersi in gioco con la loro sequela. Certamente seguire Cristo non è facile, soprattutto quando ci mette in discussione attraverso la domanda: Chi sono io per te? Seguire Cristo non è facile, soprattutto quando ci chiede di dare tutto di noi stessi e le nostre capacità a servizio della Chiesa, della comunità, di questa grande famiglia che siamo chiamati a servire ogni giorno con fatica, ma anche con soddisfazione e con gioia, proprio come facciamo nelle nostre famiglie.

C’è una terza fase o un terzo modo di vivere le nostre relazioni nella comunità: la pretesa di essere a conoscenza di tutto, di essere più bravi di altri, di aver l’arroganza di credere che la comunità senza la nostra presenza sarebbe nulla o, peggio ancora, la pretesa di sentirsi investiti di un ruolo che anziché manifestare un servizio disinteressato, porta a pensare di aver in mano una situazione o un’intera comunità da condurre a proprio piacimento, secondo le proprie idee e i propri schemi, per ricevere plausi e tributi. È quanto ha tentato di fare Pietro che, dopo aver professato la propria fede, si è messo a rimproverare Cristo, il Maestro, pensando di aver lui la soluzione, anzi di essere lui la soluzione ad ogni problema. Una sola espressione l’ha rimesso al suo posto: «Vai dietro a me!» Nessuno può vivere nella Chiesa, nella comunità, se non cammina insieme ai fratelli dietro a Cristo; nessuno è degno di servire una comunità se vuole camminare davanti a tutti e a Cristo stesso; nessuno può stare nella Chiesa se pensa solo a realizzare le proprie manie di grandezza. E anche questo tipo di Chiesa non piace a Cristo.

Abbiamo bisogno di essere Chiesa interpellata da Cristo, Chiesa che si lasci scuotere da Lui, che si lasci porre gli interrogativi più grandi dandone riposta insieme e non da soli o rifugiandoci nel nostro io. Dobbiamo essere comunità che ha a cuore le questioni di tutti e non solo i propri obiettivi. Dobbiamo essere comunità meno indifferenti alla voce di Cristo che ci chiama a servirlo e non a superarlo nei gruppi, negli ambienti, nelle proposte che ci vengono rivolte. E c’è un altro nemico della Chiesa che dobbiamo sconfiggere, diametralmente opposto al precedente: il menefreghismo che ci porta a pensare che ci sia sempre qualcun altro a fare, a sbrigare, a partecipare.

Sì, abbiamo bisogno di uscire dal nostro io, per vedere nella Chiesa il volto di Dio.

Questa è la Chiesa che ci affida il Signore, questa è la comunità che desidera da voi Cristo, questa è la comunità che vi auguro di continuare a costruire.

 

Chi è il prete? Oggi, potremmo dire, è un tuttofare. Deve dedicarsi alle necessità della chiesa, deve essere un buon amministratore dei beni mobili, immobili ed economici della parrocchia, deve essere un buon assistente sociale, deve essere capace di ascoltare la gente e fare quello che la gente dice, altrimenti è meglio che faccia altro. Ma altro cosa, se si sta già occupando di tutto e di tutti i casi? Perché nessuno afferma che il prete è colui che deve portare Cristo e portare a Cristo? Perché nessuno pensa che il prete sia colui che è chiamato a trasmettere il Vangelo della vita? Perché nessuno vede più il prete per quello che è? 

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Il profeta si sente chiamato dal Signore a donargli la vita, a mettere la propria vita nelle Sue mani, senza opporsi a Lui, senza rifiutare la Sua volontà, anche quando può sembrare dura, incomprensibile e, a volte, assurda. Il prete è colui che, come il profeta, confida nel Signore, si affida a Lui, perché è di Lui che vuole parlare, è Lui che vuole annunciare anche quando ha davanti un popolo assente, indifferente, tardo nel comprendere la bellezza di Cristo, della Sua Parola e dell’essere comunità. Per questo il prete non è più visto come colui che porta Cristo e porta a Cristo, perché di Cristo ormai poco ci importa, perché siamo più interessati a tutti quei servizi sociali che il prete non può negare, quali tenere aperto l’oratorio, anche quando siamo immersi in un tremendo vortice di maleducazione, dovuto anche all’avvento sempre più incisivo di mentalità e culture diverse dalle nostre radici che, se seguite, non portano certamente a quell’integrazione che dall’altra parte non si vuole attuare, pur di continuare a dominare la scena con l’arroganza e la pretesa di agire come meglio si crede Eppure in questo scenario il prete deve tacere – a detta di molti – così come deve tacere sull’educazione delle giovani generazioni ormai alla deriva e dovrebbe dare retta a tutti coloro che in gergo teatrale e cinematografico vengono definiti gli “scemi del villaggio”. Chi sono questi? Sono quelli che non sanno di cosa parlano; quelli che criticano per il gusto di criticare senza aver né visto, né sentito ciò di cui parlano; quelli che la sanno sempre lunga ma da fuori, perché da dentro non vogliono impegnarsi; quelli che è inutile far ragionare, perché sanno già come stanno le cose anche senza averle viste. Ecco, il prete è colui che deve dar retta anche a questi e fare ciò che dicono per non sentirsi denigrato, avvilito, giudicato.

No. Il prete, invece, è colui che non teme di dire la verità, non teme di ammonire, sferzare, e rimproverare comportamenti, pensieri, mentalità devianti e sbagliate, non teme di dire dei “No” che gli attirano critiche, ma che col tempo portano ragazzi, giovani e adulti a crescere bene, trovando la propria strada, la propria realizzazione. Il prete è colui che con il profeta dice: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Perché Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso».

Il prete è anche colui che, sostenuto dalla grazia di Cristo, si fa vicino alle persone, si fa prossimo agli ammalati e agli sfiduciati, diventa la carezza di Dio per coloro che si sentono soli e abbandonati dai familiari o dalla società stessa, si muove a compassione di chi non ha più una spalla alla quale appoggiarsi o sulla quale piangere. Il prete è colui che sa riconoscere le belle caratteristiche che stanno racchiuse nei più giovani come negli adulti e aiuta a darne realizzazione, perché ciascuno dia sempre il meglio di sé, visto che del peggio è già pieno il mondo. Quante caratteristiche nella nostra Chiesa, quanti talenti si vedono ogni giorno: questi dobbiamo tirar fuori, decisi a fare della comunità una grande orchestra dove ognuno non suona la sua musica, ma attraverso le proprie capacità contribuisce alla buona esecuzione di tutti, facendo attenzione a non farsi sopraffare da chi vuole soffocare le belle capacità per dirigere un’orchestra senza esserne il maestro, perché di Maestro ce n’è uno solo: Cristo.

Il prete è colui che vede le bellezze presenti nelle persone e con la grazia di Dio sa farle germogliare; è colui che dopo aver sferzato gli indecisi, gli apatici, i nullafacenti, sa indirizzarli verso la gioia vera di trovare il Signore presente nella propria vita che ha donato quei talenti, talvolta nascosti per pigrizia o per paura di essere giudicati. Il prete è colui che con il profeta dice: «Ecco, il Signore Dio mi assiste». Per questo supera ogni ostacolo, non si ferma davanti alla critica, non ha paura del giudizio, non teme chi gli rema contro e non si lascia prendere dallo sconforto di chi si allontana perché vede il prete troppo severo: il prete sa bene che Colui che fa crescere, cioè Dio, farà vedere a questi la luce di un nuovo giorno quando, usciti dalla terra delle proprie testardaggini, ricorderanno ciò hanno ricevuto da quell’uomo, da quel fratello che non si è arreso per il loro bene, affinché, germogliando, portino buoni frutti.

Ecco, questo è il prete: colui che al termine del proprio lavoro, non può che ricordarsi della parola detta dal Maestro: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"» (Lc 17,10).

 La parola GRAZIE è una delle prime che ci hanno insegnato. Ci permette di essere riconoscenti, perché significa che abbiamo ricevuto tanto. Ho provato a pensare ad ogni lettera della parola GRAZIE e ho trovato persone e motivi per ripeterla più volte questa sera.

  1. G. Giovani. Sono quella categoria che spesso si nasconde, vorrebbe fare ma non osa molto, ha bisogno di canali privilegiati, perché troppo impegno non stimola: l’oratorio diventa troppo stretto e si ha bisogno di altri spazi. Cari Giovani, grazie perché mi avete dato la possibilità di mettermi in gioco, di capire che la vita non è solo fanciullezza o anzianità, ma che ci siete anche voi ed è bello che ci siate. Grazie a quei giovani che hanno deciso di restare in oratorio e a quelli che, solo nella giovane età, hanno compreso quanto bella sia la vita oratoriana ritornando, magari da un’adolescenza diversa, lontana, o chiusa in se stessa. Grazie anche a chi se n’è andato,anche sbattendo la porta: mi ha dato la possibilità di comprendere quanto sia duro il compito di educatore, ma quanto valga la pena insistere. A voi giovani dico: tirate fuori la grinta, siate per i piccoli un punto di riferimento positivo, date il meglio di voi stessi, e troverete la vera realizzazione.
  2. R. Ragazzi. Sono quelli che crescono apprendendo, simili a spugne che assorbono la realtà che hanno attorno. Sono quelli che ormai hanno il cellulare in mano fin dal grembo materno, quelli che hanno capito che basta minacciare i genitori di non amarli per ottenere tutto. Grazie ragazzi, perché malgrado questa triste, ma vera descrizione della vostra realtà, siete quelli che sanno dare ancora soddisfazioni quando vi impegnate, quando partecipate alla vita della comunità e dell’oratorio, quando cercate di dare il meglio di voi stessi insegnando anche a noi adulti a non mollare di fronte alle sconfitte della vita. Perdonateci se abbiamo contribuito a ridurvi così e aiutateci a volere il vostro bene, anche se dobbiamo dirvi dei no che potrebbero costarci fatica, ma che vi permetteranno di crescere.
  3. Anziani. Sono la parte più tenera della comunità. Da voi ho imparato a contare il tempo e a non sprecarlo, a vedere la sofferenza come una compagna di viaggio che fortifica, rende capaci di guardare in faccia la vita, dona saggezza. Da voi ho ricevuto tanto affetto, malgrado tante volte io non abbia saputo ricambiarlo per il mio carattere burbero e timido e per le tante cose da fare: vi chiedo scusa se ho preferito adempiere ai miei impegni trascurando anche solo uno di voi. Da voi ho ricevuto la solidarietà e la generosità più grande, malgrado le vostre pensioni ridotte all’osso, perché mi avete sempre insegnato che nella vita come si riceve, si dona. Grazie di cuore.
  4. Generazione Z. Vengono chiamati così gli adolescenti, persone strane, difficili da definire e da capire. Se è quasi impossibile tirar fuori dalla vostra bocca un grazie per tutte le volte che vi ho rimproverato, sono io a dirvi grazie per avermi dato la possibilità di capire quanto mi siete cari, quanto sia affezionato a voi, quante cose belle potete fare e dare per la vostra comunità. È ben per questo che desidero questa sera abbracciarvi e stringervi al mio cuore, perché siete i più fragili, con una costituzione ancora da formarsi. Per questo ogni volta che vi si stimola a fare qualcosa di buono, come ogni volta che vi si rimprovera per non averlo fatto, ringraziate perché, così facendo, comprenderete tutto il bene che vi circonda ma che, per quella mania di onnipotenza e voglia di autonomia che vi caratterizza, non riuscite ancora a riconoscere.
  5. Instancabili. Sono i volontari che animano le nostre comunità: all’inizio, quando si chiede loro di entrare a far parte di un gruppo, di una realtà, di un ambito parrocchiale, sono titubanti, poi danno tutto loro stessi fino a non sentir più la stanchezza, ma solo la bellezza di mettersi al servizio. Grazie perché, anche quando in paese i nullafacenti vi criticano, sapete andare avanti. Grazie perché, anche quando i più giovani, di cui sopra, portano all’esasperazione, continuate a credere all’opera più grande di voi, che si chiama Chiesa. Grazie perché, malgrado i miei ritardi e le mie richieste assurde, avete sempre fatto di tutto per accontentarmi ed essere puntuali nell’adempimento di ciò che vi chiedevo. So che nella mente me ne avete tirate di ogni colore, ma il vostro cuore ha prevalso. A voi chiedo di continuare lo stile del servizio, che non è lo stile di chi vuole imporsi con atteggiamenti invadenti senza aver ricevuto un mandato per farlo, non è lo stile di chi pensa che il volontario, proprio perché tale, possa fare quello che vuole negli ambienti della comunità, offendendo con la propria insistente presenza anche il servizio degli altri.
  6. Educatori. A voi genitori, catechisti, allenatori, baristi, figure diverse a contatto con i ragazzi, va il mio grazie: a voi che credete ancora che l’educazione è cosa del cuore (come diceva don Bosco) e non un qualcosa da fare tra le tante incombenze da adempiere in una giornata. Grazie a voi che mi avete manifestato attenzione, collaborazione educativa e non mi avete negato anche qualche critica costruttiva dall’interno della nostra realtà, a differenza di chi si è permesso di giudicare, senza avere messo dentro un’unghia del piede. Grazie anche a questi ultimi, perché mi hanno dato la possibilità di credere in quanto ho proposto confermando la parola del Signore che ha detto ai suoi discepoli: «Guai quando tutti diranno bene di voi». Non demordete, cari educatori: riprendiamoci questo mondo allo sbaraglio, per far capire quanto è bella la vita se vissuta e spesa alla grande.

 

GRAZIE. Una semplice parola che costa niente, ma che questa sera sento come una spina nel fianco, perché mi dice che è giunto il momento di partire. La pronuncio con più grinta qui, in questo oratorio a me tanto, tanto caro, che ho trovato in un modo e che lascio in tutt’altro con grande soddisfazione per questi anni di costruzione non solo materiale. La rivolgo alle diverse realtà delle nostre comunità, alle amministrazioni comunali e alle tante associazioni che le compongono.

Grazie davvero a tutti, senza escludere o tralasciare nessuno.

 

A tutti e per tutto, dico grazie.

A tutti e per tutto, chiedo perdono.

 

Don Alessandro Angioletti

Ponte Nossa e Ponte Selva

15 settembre 2024