X del tempo ordinario A

11 giugno 2023

 

Spesso pensiamo che a forza di digiuni e sacrifici ci attiriamo la benevolenza di Dio, ci convinciamo che a suon di rinunce e di fioretti il Signore, vedendoci bravi e ferventi, si converta a noi. In realtà i digiuni, i sacrifici e i fioretti servono alla nostra conversione, non alla sua, e ciò che è gradito a Dio non sono le pratiche che mettiamo in atto per attirarci la sua simpatia; ricordiamo bene ciò che ci ha detto per mezzo del profeta Osea: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti». E Cristo stesso aggiunge: «Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». I nostri digiuni e sacrifici che ci impongo una vita fatta anche di rinunce, non servono ad altro che a cambiare il nostro cuore per portarlo all’essenziale, per essere capaci di entrare in noi stessi, per togliere di mezzo ciò che ci impedisce di vivere, come ci ha comandato il Signore, e il suo comandamento è chiaro: amore più che sacrificio, misericordia più che digiuni. Come possiamo, infatti, togliere da noi qualche pietanza pensando di fare un piacere al Signore, se poi non ci guardiamo in faccia e non ci amiamo come fratelli? Come possiamo compiere tutto il bene di questo mondo se poi continuiamo a parlar male gli uni degli altri? Forse pensiamo che il nostro legame con il Signore sia basato, sì, su una fede forte, salda, incrollabile, ma che nulla ha a che vedere con le nostre relazioni umane?

La fede non è separata dal nostro essere, dalle nostre relazioni, dal nostro vivere in rapporto con chi ci circonda e non va neanche testimoniata – come ci siamo detti tante volte – solo a parole o con pie pratiche, ma nella realtà di ogni giorno. La fede, che attingiamo dalla partecipazione ai santi misteri che celebriamo, dalle pie pratiche devozionali che la tengono viva e dalla preghiera quotidiana, deve incarnarsi in un corpo vivo. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, parlando loro di Abramo, lo presenta come modello di fede e di fedeltà a Dio: [Abramo] non vacillò nella fede. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. E noi? Noi che messaggio ne ricaviamo? Anche per noi Paolo ha una riposta: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione, è stata promessa la vita eterna che ora accogliamo nella fede, ma che si manifesta pienamente nella vita quotidiana e nelle relazioni di ogni giorno. Come possiamo infatti credere nella risurrezione se il nostro corpo non vive la fede nella risurrezione? Come possiamo avere fede nel Dio di Abramo che ha risuscitato Cristo suo figlio, se poi i nostri rapporti sanno solo di morte, perché usiamo più sacrifici che misericordia, più digiuni che amore, più apparenza che sostanza? Ricordiamocelo ancora: sciocchi sono quelli che dicono che è meglio fare il bene senza andare in chiesa, piuttosto che andare in chiesa e poi uscire e fare il male. La vera scommessa è accorgersi, tutti, ma proprio tutti, che in chiesa ci andiamo per attingere alla fonte dell’amore, che è Cristo, per uscire e vivere questo amore e la misericordia che da esso deriva nelle relazioni e nei rapporti quotidiani. Non barrichiamoci dietro a scuse e scusanti che non hanno senso. Non andiamo in chiesa perché siamo bravi, al contrario di chi pensa di esserlo senza metterci piede; andiamo a Cristo perché abbiamo bisogno di Lui, come Egli stesso ci ha detto: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati»; tutti siamo malati, a volte anche di perfezionismo, credendoci sani e giusti, e tutti abbiamo bisogno di Cristo per continuare a convertirci.

Torniamo piuttosto al Signore, non per farci vedere bravi e poi vivere lontani dalla sua Parola e dai suoi insegnamenti. Torniamo a Dio per rafforzare sempre più la nostra fede e trasformarla in opere di amore vicendevole e di misericordia concreta. Allora saremo disposti, come l’apostolo Matteo, a lasciare tutto ciò che ci tiene ancorati a noi stessi, i nostri rancori, le nostre paure, i nostri sospetti, per seguire Cristo nella fede sulla via della pietà, dell’amore fraterno e del perdono reciproco. E chissà che vecchi rapporti, così belli, ma naufragati, possano tornare a vivere e a renderci vivi; chissà che le porte murate tornino ad aprirsi; chissà che – al contrario di ciò che scriveva Osea – il nostro amore per il Signore e per i fratelli non sia come la nuvola del mattino o come la rugiada che all’alba svanisce, ma come il Suo amore, stabile e sempre misericordioso.